Aleksander Bassin

Ci siamo mai chiesti, durante le nostre passeggiate più o meno casuali e occasionali, lungo o accanto alle scogliere, quale debba essere la forza delle onde del mare, il loro sbattere, il particolare “trattamento” che questa forza naturale dell’acqua può permettersi di fare, per poter scalfire, per così dire, e trasformare una massa monumentale in piccole metafore dei grandi resti di pietra del passato.

Per riflettere su questo, vorrei tornare all’opera di uno dei più grandi scultori dell’epoca moderna, Henri Moore, di cui un altro suo contemporaneo, il gigante della parola storica e critica Sir Herbert Read, ha scritto una storia così avvincente: la storia di uno scultore che, in passeggiate come quelle che ho citato nell’introduzione, trovava e scopriva tali forme, lavorate o addirittura realizzate dalla natura e dal tempo. La morfologia artistica di Moore, che per tutta la vita ha abbracciato e approfondito un contesto unico basato esclusivamente su forme organiche, ha poi osato confrontarsi senza esitazioni con lo spazio, quello aperto e apparentemente vuoto, o quello coperto da una struttura urbana, contemporanea o storica.

Non è un caso che la mia memoria attiva, quando ora vengo a contatto e guardo questa minuscola e molto convincente struttura di Sodnikar Ponis, a volte come appena sfiorata da uno scalpello, mi abbia riportato indietro nel tempo: all’epoca della grande retrospettiva di Moore a confronto con la Firenze rinascimentale e, naturalmente, ancora prima, all’incontro dal vivo con questo artista nel giugno del 1979 a Forte dei Marmi, ai piedi della famosa cava di Carrara, da cui Michelangelo, in modo ancora oggi invidiabile, già estraeva e spostava enormi blocchi di pietra verso i suoi cantieri.

Mi dispiace non aver incontrato l’artista che espone stasera, le cui opere hanno in ogni momento una particolare forza espressiva, suscitano ammirazione e l’idea di come avrebbero potuto svilupparsi ulteriormente, nel corso della sua vita.

Eppure non si può fare a meno di affermare, senza alzare particolarmente la voce, che la scultura di Sodnikar Ponis ha sempre vissuto il suo tempo attivo proprio in queste piccole dimensioni, nella tensione espressiva che si riversa in ogni opera, nei piani di superfici lavorate su bordi morbidi, ondulati o fortemente incisi e in qualche modo rialzati. E come sono interessanti le finiture a spigoli vivi, apparentemente assemblate, ma in realtà e solo sotto gli strumenti dello scultore, realizzate o intagliate, che possono emanare un bagliore particolare. Come lo scultore abbia saputo evocare un gorgo che si può trovare in natura, sia come guscio ab bandonato di un’armatura organica, sia come puro “prodotto” della natura, trovato e scelto dalla mano dell’uomo.

E poi ci sono le composizioni, disposte una accanto all’altra e presentate nella teca di vetro.

Ed è a questo punto che vorrei ricordare le parole del maestro Picasso, secondo cui egli non scopre la sua arte, ma la trova. Con queste parole concludo il mio breve editoriale con l’augurio che anche voi, cari ospiti, possiate trovare il messaggio artistico nelle testimonianze in pietra dello scultore.

Aleksander Bassin