Enzo Santese

Credo che l’espressione di Friedrich Hölderlin “Sono liberi, come rondini, i poeti (Die Wanderung, strofa 3, verso 28) si attagli perfettamente alla personalità di Vojc Sodnikar Ponis che, nella sua esistenza (Lubiana, 1959 – Capodistria 2019) ha cercato sempre la libertà del sentire, del dire e dell’essere, trovandola proprio nell’attività creativa e nella riflessione filosofica, per lui intimamente connesse.

Quando si è di fronte a un artista autentico, che sviluppa nello spazio tridimensionale, le sue risonanze interiori e le considera come punti d’avvio di un dialogo virtuale con i fruitori, la sua “presenza” è tanto viva da giustificare il racconto di chi lo ricorda, sempre e comunque, con l’utilizzo del tempo presente indicativo. È quanto succede a me che ho avuto la fortuna di intercettare in più occasioni i segnali di sicura novità dell’apporto allo scenario dell’arte contemporanea e di apprezzare il lavoro di Vojc Sodnikar Ponis, infaticabile creatore di stimoli culturali, inscritti nella sostanza fisica e nella valenza metaforica delle sue proposte, capaci ogni volta di sorprendere per le soluzioni formali e, soprattutto, per il cumulo di potenzialità interpretative per chi le guarda.
La scultura è disciplina che impegna l’artista in un autentico corpo a corpo con la materia, che per sua natura ha consistenza di durezza, di resistenza, di solidità e di peso, con cui è necessario misurarsi durante il lavoro di sottrazione dal masso lapideo, fino al raggiungimento del risultato voluto. È proprio questo che rende Vojc un personaggio atipico nello scenario dell’arte plastica e documenta la sua appartenenza alla categoria dei “poeti della pietra e del marmo”, nel senso che il suo sguardo penetra letteralmente all’interno della materia scelta per ricavarne forme di volumi, dinamiche di spazi lungo il filo di linee inscritte nel progetto iniziale. Oltre a ciò l’artista considera sempre il prodotto finito non come un elemento di potenziale commercializzazione, ma prima di tutto quale punto d’innesco per un’analisi dei motivi alla base del pensiero generatore; il tutto dentro una filosofia che, pur aderente all’urgenza di quantificare nelle varie strutture cristalline a grana variabile, oppure nella pietra bianca d’Istria, un’idea che non nasce nella realtà esterna ma dall’intimo della sua sensibilità di uomo, proteso alla ricerca di sé nell’incontro con gli altri, al rapporto con l’ambiente e, sempre, con una marcata sofferenza per le sorti di una natura sfruttata fino al pericolo di decadimento irreversibile. Questo si rileva in Vojc, abituato ad addomesticare la compattezza più resistente del medium e nel, contempo, di far lievitare l’interpretazione dei fruitori verso le quote alte di una spiritualità dal forte tono di laico sacerdote del belloin una materia che si fa leggera e sembra perdere il suo peso effettivo.

Scultore per vocazione istintiva, in anni di febbrile ricerca Voj c Sodnikar Ponis con un metodico lavoro di ricerca e sperimentazione, acquisisce gradualmente una consapevolezza che gli consente di affidare la riflessione plastica all’immediatezza dello scolpire e dell’individuare l’immagine all’interno del blocco di pietra; la sua poetica è segnata da una stretta fedeltà ai principi creativi ispirati a una purezza ascetica. Anzi nella sua poetica riesce a far combinare le suggestioni che gli derivano dall’osservazione del reale con le emissioni più segrete di ciò che è impercettibile ai sensi ma registrabile con l’anima.

L’artista studia preventivamente la materia nella quale sa leggere il presagio dell’opera da realizzare; così organizza un piano ideativo di profondo nesso tra ritmo e spazio, tra allusione metaforica e animazione formale, tra semplici presenze verticali e segni peculiari che le distinguono. Il bell’equilibrio si attua tra le tensioni minimaliste e lo slancio costruttivo dei volumi, inseriti in precise logiche di figure composte. Il processo di riduzione non è mai spinto al limite dell’azzeramento, semmai verso una marcata attenzione alle superfici, dove tracce di scrittura sono ben visibili in un contesto seriale che esibisce una sorta di tramatura in rilievo; qui Vojc Sodnikar Ponis imbriglia l’emozione che sta alla base del suo lavoro artistico.
Nel mio ricordo di Vojc, ha una sua centralità la mostra allestita in occasione dell’apertura ufficiale del suo atelier di Capodistria: una sorta di contenitore testimoniale, dove lo sguardo dell’osservatore consuma – dentro una cornice architettonica “sacrale” – la sensazione dell’avvolgimento, variabile secondo il punto di vista in cui si colloca.
Li vedo nitidi come allora: sette elementi lapidei si ergono con sviluppo verticale a sottolineare la “magia” di uno spazio, dove un cerchio virtuale a pavimento è “tracciato” per allusione dalle facce interne arcuate delle sculture, poste lungo un’intuibile circonferenza. Il tutto nasce da un’operazione mentale di forte impatto razionale: il progetto iniziale parte dalla considerazione di sette cerchi sul pavimento, sei dei quali dislocati in maniera da formare, con gli spazi risultanti dalla loro tangenza, delle figure; queste, opportunamente ridotte per eliminare alcuni angoli acuti, costituiscono la sezione su cui si eleva ogni singolo elemento in pietra di Lipica. In tal modo l’opera “7-2” (composta da 7 piccole colonne, disposte in 2 corpi in stretta relazione fra loro, grazie alla rotondità di base dichiarata dalla loro sistemazione) mostra in maniera articolata la dialettica tra la materia e l’ambiente dove è installata. E poi ci sono gli apporti della luce sulle superfici, mosse e scheggiate con una specie di tratteggio o zigrinatura; il ritmo spaziale non è mai uguale a se stesso, nella sequenza in senso circolare di corpi simili, ma diversi per struttura formale e per condizione epiteliale (la “pelle” della scultura), eppure accomunati dal fatto di situarsi con una faccia arcuata sulla medesima circonferenza, quella che alla base dell’installazione si intravede nella disposizione in circolo di sei opere. La settima è un po’ più defilata, inserita nello spazio di incontro e tangenza del cerchio più esterno con uno di quelli ipotizzati ad anfiteatro. Così l’artista, proteso a smuovere la geometria dalla sua concezione di fissità, produce nello spazio dell’evento una musicalità e un equilibrio tra l’archetipico e il classico. L’opera ha una natura semplice e una complessa; da una parte esiste la singola stele che si innalza ingaggiando con la luminosità dell’ambiente una sua specifica dialettica, dovuta anche alla tramatura dei segni, alle porzioni levigate e a quelle ruvide; dall’altra parte una visione grandangolare dell’installazione dà l’idea che i singoli elementi riescono a vivere armonicamente tra loro, esprimendo l’indizio simbolico di un’aspirazione a un mondo concorde.Essi interagiscono, si incontrano e si confrontano realizzando una struttura compositiva dove si parla il linguaggio ascetico di forme stabili, avvitate a volumi che si “muovono” sulla forma arcuata della faccia con cui si guardano e sulla diversità strutturale delle altre.

Il pensiero di Vojc Sodnikar Ponis, tradotto nella cifra scultorea intitolata “7 – 2”, sembra invitarci a entrare in questo “tempio profano” dove è possibile partire dall’idea di armonia che lo permea per assaporare un ottimismo, nel quale giace una speranza in orizzonti migliori, grandi assenti nelle drammatiche flessioni dell’era contemporanea; mai come oggi questo desiderio ha una sua drammatica attualità. È quello spirito della natura che Paul Cézanne evoca per la pittura, Vojc lo applica sistematicamente nell’arte plastica, con la mente costantemente concentrata sul dinamismo dei tempi e degli spazi, sul movimento continuo selle stagioni nell’anno solare e dell’essere umano nel suo viaggio esistenziale. Ogni parte dell’opera è una pagina scritta di emozioni affidate a ritmi e segni anche minimi, che accolgono in sé arguzie solo in parte narrative, impigliate nel reticolo di serialità incise che rendono formicolante il piano. È un complesso di alfabeti riconducibili alla struttura significante di codici poetici, che rimandano a un paesaggio mentale, emblema primario della vita dove asprezze e motivi di gioia si susseguono in un incalzare di eventi che, nel loro complesso, danno dignità e bellezza all’esistenza. E come se l’artista volesse combinare in un unico corpo un intreccio stretto fra finito e infinito, luce e buio, concretezza del vivere e astrattezza del sentimento. Le proprietà della materia – la pietra, il marmo di provenienze diverse e di consistenza e colore differente – sotto le abili mani dell’artista fanno scaturire un intreccio di combinazioni formali da lui stesso intraviste nella pietra ancora grezza; poi, fedele al suo progetto scritto o mentale, le “evoca” nel senso letterale, le chiama fuori dall’indistinto per dare una fisionomia alla sua “creatura”. Le caratteristiche della materia, mai perfettamente corrispondenti da brano a brano, offrono una resistenza variabile di fronte all’azione dello scultore che agisce per sottrazione; è per questo che la conoscenza della materia va aggiornata con una continua sperimentazione e approfondimento delle sue qualità e la ricerca ha anche la finalità di monitorare le potenzialità da tradurre poi in un progetto creativo.E la tecnica di attacco alla pietra procede su più direttrici dentro una poetica che alla materia richiede non solo forme e volumi, ma anche segni che punteggiano le superfici, dove il gioco lucido/opaco crea una dialettica fra il concetto di riflesso e di assorbenza. Le sinuose rotondità dei corpi plastici inanellano una serie di movimenti di linee che dinamizzano le parvenze della scultura, talora dall’aspetto di un misterioso fossile che, in questo frangente, subisce un arrangiamento e una modificazione non dal tempo e dalle condizioni atmosferiche ma dallo scalpello di Vojc. In alcuni casi paiono conchiglie piovute dal cosmo a ritrarre nella forza del gesto e nella rilevanza della modellatura una presenza, adatta a testimoniare l’idea di un tempo remoto che apre orizzonti di conoscenza ai contemporanei.

Ogni scultura è una sorta di pagina di diario, in cui l’artista fissa nella persistenza della materia il guizzo di un’idea improvvisa, il battito di un’emozione intensa, il riflesso di uno stato d’animo che può andare dalla sottile inquietudine all’entusiastica adesione alle meraviglie del creato, la voglia di ingaggiare con l’ipotetico fruitore una fitta dialettica sulle ragioni che alimentano il mistero della vita; per questo il valore simbolico delle vele, delle conchiglie, della morfologia a spirale, della combinazione binaria, del gioco tra pieni e vuoti, degli slanci verticali, delle steli che indicano una direzione dell’anima tra terra e cielo, con la ricorrente alternanza tra superfici levigate a specchio e quelle ruvide o picchiettate, si carica di sempre ulteriori sfumature significanti.
Le tracce inscritte nelle superfici solitamente non fanno parte di un disegno narrativo, ma sono l’indizio di un’emersione intermittente di venature, attraverso cui l’artista fa “respirare” la pietra che, fuori dalla sua nuda evidenza fisica, reclama uno sguardo che la cataloghi come evento plastico; qui l’assonanza con un immaginario ancestrale si fonde con la logica della geometria, asservita a un progetto che trasforma la realtà lapidea in pulsante “presenza”, innestata in un contesto che può essere anche in combinazione di “dialogo” con altre sculture di Vojc Sodnikar Ponis Svojc.